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Ricordi sparsi

Quando mio papà morì avevo sedici anni.

Da poco più di un anno ci eravamo trasferiti nel nuovo paese, dove mamma insegnava nella locale scuola media. Con l'aiuto di zio Gino avevamo ottenuto in affitto un appartamento dell'IACP.

Papà era disoccupato e faceva qualche lavoro saltuario; operaio nella campagna dello zuccherificio, bracciante agricolo in estate, operaio nell’opera di rinforzamento degli argini del Po. Ma era gracile e debole e non era il suo lavoro. Aveva più volte tentato l’attività di artigiano del pellame, come continuazione del mestiere tradizionale di famiglia, finimenti per cavalli, che non era riuscito a rinnovarsi con l'affermarsi delle automobili. Realizzava borse che tentava di vendere al mercato senza successo. Di tante ne ricordo una in particolare: il secchiello di cuoio color caffellatte che si chiudeva stringendo ed annodando una fettuccina, sempre di cuoio, infilata negli occhielli del bordo superiore, e che mamma usava sempre, portandolo anche a tracolla.

Era lei, in pratica, che tirava avanti la baracca. Dopo impieghi parziali nelle scuole medie come segretaria, riuscì ad ottenere l'incarico di insegnante di Economia Domestica, materia che a quei tempi le piaceva anche, e nella quale si era abilitata alcuni anni prima sostenendo gli esami a Roma. Io ero allora ancora un bambino, e quando tornò, mi raccontò di aver visto il papa, Pio XII, e di aver provato un’emozione molto forte, come se da quella figura magra e vestita di bianco, emanasse una forza soprannaturale. Mi disse pure di essere stata allo zoo dove aveva visto un’anatrina coloratissima. Io penso si trattasse dell'anatra mandarina. Mi portò una piccola scatola di costruzioni di legno, quelle con colonnine, archi, muri, travetti e capitelli, con cui giocai moltissimo. La scatola era di legno arancione. Sopra il coperchio, che scorreva in due scanalature laterali, c'era una figura di esempio. Tempo dopo mi regalarono un'altra scatola simile. Ma non aveva i pezzi belli e vellutati come quella arancione. Chissà dov'è finita. Mi sembra di conservare tutto, ma poi quel che mi piacerebbe riavere non lo trovo. Molte cose sono andate perse nel trasferimento. Rimaste nella casa in cui abitavamo in affitto, sono finite nel granaio e qualcuno le avrà buttate via.

Il primo incarico completo mamma lo ottenne verso la fine degli anni cinquanta nella scuola media di quello che poi diventò il nostro nuovo paese. Distava più di trenta chilometri, e mamma vi si recava con un motorino, anche nei più nebbiosi ed umidi giorni invernali. Oltre un'ora di viaggio; per arrivare alle otto doveva alzarsi alle sei del mattino, e d'inverno è ancora buio. Raccontava che durante il tragitto, in alcuni tratti di strada, si formava, dietro di lei, una coda di ragazzi in bici. Il motorino era il famoso “bianchin” e lei in genere non superava i trenta chilometri orari. Il ricordo più vivo che ho delle sue partenze e dei suoi arrivi è di quando sopra il cappotto indossava un impermeabile di gomma marrone chiaro con il cappuccio nei giorni di nebbia e di pioggia.


Lasciare il mio paese d'origine mi preoccupava. Non ero un ragazzino estroverso e temevo di non riuscire a trovare nuovi amici. L’ignoto del resto mi fa ancora paura. Al mio paese c'erano i miei nonni materni e lo zio Bino. I nonni paterni erano già morti da chissà quanto tempo prima che io nascessi.

Negli anni delle medie, abitavamo vicino a loro, in alcune ampie stanze di una discreta casa padronale. Distava una cinquantina di metri dalla casa dei nonni. Per i padroni, Quirico ed Anita, era diventata troppo grande. I cinque figli,Teresa, Elio, Ubaldo, Armando, Bruna, si erano formati una famiglia ed i vecchi erano rimasti soli, com’è ormai normale ai nostri tempi. Baldo addirittura era emigrato in Canada, ma tornò proprio in quegli anni con una moglie tedesca; Edy, magra e fumatrice accanita di sigari, di pelle scura, voce roca e senza figli.

Al mio paese avevo i miei amici: Piero, Fausto, Paolo, Andrea, Alfio. Ce n'erano altri ma quello era il gruppo degli anni delle medie. Si era formato principalmente per la comune passione nata per il tennis. Un gruppo di amici, di cui zio Bino faceva parte, aveva costruito un campo da tennis di fianco all’asilo. Avevano scavato una buca riempiendola di fascine e sassi per creare un fondo drenante. Poi, alla fine distesero la terra rossa.

Zio Bino che mi rendeva sempre partecipe di tutte le sue passioni, sportive, tecnologiche e culturali, in quell’occasione, mi regalò la racchetta.

Per giocare fino a mezzogiorno, ci alzavamo perfino alle quattro del mattino, in quelle lunghe estati. Se tardavo, spesso gettavano sassi contro le imposte della finestra dove dormivo. C'erano altri giochi che ci accomunavano, come il biliardo, boccette principalmente. Anche a carte, ma lì io ero molto scarso e tendo a dimenticarmene. Non so: io a carte proprio non riesco a ragionare (ma forse, non solo a carte...). Nella briscola a coppie, bisogna ricordare le carte giocate, ma non appena vengono raccolte quella della mano, io le dimentico. Non parliamo poi del tressette. A poker non mi piace per niente mettere in palio i soldi e rischiare di perderli. Non mi piacerebbe nemmeno vincerli se gioco con amici. Ricordo due partite a poker, di alcuni anni dopo nel nuovo paese. Le persi entrambe. Gli altri erano troppo furbi per me. Addirittura fui battuto con un poker d’assi quando avevo un poker di re!...mah! Non ne sono sicuro, ma credo che Hemingway abbia scritto che un uomo non è un vero uomo se non sa giocare a carte. Posso sempre pensare che avesse torto, anche se, a dire il vero...be’, lasciamo stare; sono quel che sono e mi devo accontentare.

Il cambiamento di paese e di casa coincideva con l'inizio delle superiori. Mi aspettava il Liceo Classico. Piero, Alfio ed Andrea si erano invece iscritti all'ITIS della stessa città, per cui speravo proprio che ci saremmo ritrovati qualche volta. Ci trovammo, in effetti, alla fiera di ottobre, ma non divenne una consuetudine; anzi ci trovammo solo quella volta lì, per cui sentii con amarezza che il mio gruppo si era sciolto e che la mia vita stava cambiando.

Anche Fausto aveva pensato all’Itis. Nell’estate si era recato in città con i suoi per vedere l’istituto ed avere informazioni sull’iscrizione. Lui non aveva frequentato le medie, ma le scuole di avviamento professionale. Del suo viaggio informativo mi è rimasto il racconto dell’episodio che più lo aveva colpito. Quando ci trovammo tutti insieme e gli chiedemmo com’era andata, lui ci disse: “Sapete cos’ho visto? Sui muri dei gabinetti dell’Itis c’era scritto: “Bedendo vi incula correndo!” Non penso sia stato per quel graffito, ad ogni modo Fausto si iscrisse alla scuola d'arte del paese vicino al nostro. Aveva un buon talento nel dipingere. Anche a me piaceva dipingere e disegnare, ma i suoi quadri mi sembravano più belli, la sua mano più abile, la sua fantasia più fervida. Aveva assimilato lo stile di uno stimato pittore del paese, di cui mi sfugge il nome. A zio Bino piacevano i quadri di quel pittore, e nel salotto ne aveva uno. Anch'io ottenevo i miei piccoli riconoscimenti. Un mio paesaggio a pastelli fu incorniciato ed esposto nell'ampio ingresso del palazzo che ci ospitava. Entrando dalla porta principale, a destra c'era la nostra stanza multifunzione cucina-sala da pranzo-salotto, a sinistra quella di Quirico ed Anita. Proseguendo nell'ampio ingresso, sulla destra si poteva "ammirare" la mia opera. Poco dopo si accedeva alla doppia rampa di scale che portava alle stanze da letto. L'ingresso era ampio ed in fondo si aprivano lateralmente altri due vani. La porta sul retro, si affacciava sul vigneto. In quella zona realizzai i miei più grandi presepi, con le statuine che ancora possiedo e le casette che costruii con il traforo. Per il presepio gareggiavo con Fausto che lo installava nella sua abitazione, adiacente alla casa padronale. Un tempo era la dimora del bovaro e vicino c'era proprio il fabbricato bello grande che ospitava la stalla ed il fienile. Il presepe di Fausto era addirittura più complesso del mio, anche se più piccolo. Il papà, soprannominato Limòn, ma non ne so il motivo, era falegname socio con un altro di cui mi sfugge il nome ed anche la faccia, ma non faceva grandi affari. Costruì qualche mobile per lo zio Bino: un comò ed un armadio per la stanza da letto nuova, ed un tavolo quadrato in ciliegio, che conservo nell'angolo dello studio. Ospita, attualmente, un impianto Hi_Fi Sony che ormai ha i suoi anni, la stampante Wi-fi Epson, la macchina costruita con i Lego technick da Marco e Nicolò, router e modem, multiprese varie. Su di esso dimorarono per parecchi anni i vari nostri PC dove nacque, per merito di Nicolò, il nostro sito Electroportal divenuto poi Electroyou.

La mamma di Fausto la si diceva piena di dolori. La sua faccia era lunga pallida e sorridente, ma si vedeva che era un sorriso triste. Faceva le punture alle galline. A quei tempi tutti o quasi in paese avevano le loro galline, ed ogni tanto si sentiva di un'epidemia da qualche parte, per cui era quasi obbligatoria la vaccinazione. Anche Fausto, il più alto di tutti noi, lasciò il paese qualche anno dopo.

Paolo, era il migliore in tutti i giochi, tennis, biliardo, pallone, palline, giro d'Italia, gnagnul ( la lippa), cerbottane. Era un po' come suo papà, il più forte nel gioco delle bocce e del biliardo. Io andavo sempre a vedere, le sere d'estate, gli uomini che giocavano a bocce. Non frequentavo ancora le elementari e allora abitavamo nella piazza. Il campo da bocce era lì vicino. Mi piazzavo vicino al campo, e guardavo al di là della rete le partite, seduto su un seggiolino di legno, che mi portavo da casa appoggiando il sedile alla testa e tenendo lo schienale con le mani. Mi piaceva vedere la boccia rotolare per avvicinarsi al pallino, ma aspettavo sempre il momento in cui qualcuno decideva di colpire al volo la boccia ad esso più vicina. Il papà di Paolo era proprio bravo. Una rincorsa di qualche passo, e la sua boccia usciva dalla mano, che la stringeva nella calotta superiore, descrivendo un'alta parabola che quasi sempre finiva sulla boccia scelta. Un bellissimo schiocco e le bocce schizzavano via finendo con un sordo fragore sulle assi che delimitavano il campo. La mamma di Paolo, Eva, era era una bella bionda che faceva colpo: questo comunque lo capii abbastanza anni dopo. Paolo non proseguì gli studi e lasciò il paese, forse non molto tempo dopo di me, per andare non so dove, credo a Milano. Non ne ho saputo più niente come di Fausto del resto. Non ho più saputo nulla nemmeno di Alfio, né di Andrea.

Prima che diventassimo amici, anche se non ho la più pallida idea delle motivazioni, litigai sia con Alfio che con Piero. Con Piero me la cavai abbastanza bene; ad un certo punto gli buttai a terra la bici e lui la prese e se ne andò di corsa. Con Alfio invece presi una bella batosta. Con il calcio di una pistola intagliata nel legno, mi colpì più volte la testa. Piangendo scappai ed andai in cerca di papà. Non era passato molto tempo dal bruttissimo infortunio che mi era capitato. Caddi da un camioncino sull'asfalto. Ricordo con terrore la sequenza. Sergio, lo zio di Andrea e Mario, miei amici a quel tempo, ( avevo finito le elementari e proprio il giorno prima avevo sostenuto l'esame di ammissione alle medie) consegnava con il camioncino legna da ardere. Caricò anche noi che insistevamo per accompagnarlo. Durante il viaggio con il camioncino scarico, noi tre giocavamo. Un gioco sciocco e potenzialmente tragico. Cercavamo di stare in equilibrio nel cassone vuoto senza aggrapparci con le mani, mentre il camioncino procedeva sulla strada sconnessa. Io persi l'equilibrio e cominciai ad arretrare. Ridevo anche, e non mi rendevo conto che stavo avvicinandomi alla sponda posteriore. Mario ed Andrea mi guardavano e non capivo perché fossero diventati seri e silenziosi. Ne avevano tutte le ragioni. Ormai ero vicino alla sponda e non potevo più fermarmi. Ne sentii il bordo metallico sui polpacci e volai giù dal camion. Non so quante giravolte feci in aria, ma vedevo un'infinità di cerchi marron, grigi e verdi che vorticavano furiosamente. Atterrai dopo un paio di secondi sull'asfalto con una botta nella nuca che mi lasciò senza respiro. Fui subito soccorso da un conoscente che abitava proprio in quella via. Per farla breve mi salvai per miracolo. E per mamma lo fu proprio e fu anche merito di un santino che avevo in tasca, regalato non ricordo da chi. Era uno di quei quadrettini che contengono due immagini che si alternano modificando l’angolo visuale. Nel mio le due immagini in bianconero erano quelle di S. Giovanni Bosco e di S. Domenico Savio.

Quella che mi inflisse Alfio fu la seconda più grande batosta che presi. La prima fu quella che mi impartì Loris. Frequentavo le elementari, non so di preciso che classe, ed un giorno mamma venne per parlare con la mia maestra Felicina. Mamma era piuttosto voluminosa, ed indossava il cappotto con l'impermeabile di gomma. Dopo che se ne fu andata, durante l'intervallo, Loris, che aveva almeno un anno più di me, uno di quei ragazzi che una volta venivano ripetutamente bocciati, mi canzonò dicendo che mia mamma non passava per la porta. Non ci vidi più e mi scagliai contro di lui. Beh, ne presi tante, ma così tante che non ricordo se riuscii a rifilargli almeno un pugno. Mi arrivavano colpi da tutte le parti. Non capivo da dove arrivassero, dove fosse Loris. Ero come dentro una sfera grigia, e piangevo di rabbia, sferrando pugni a vuoto disperatamente. Ero del tutto impotente. Una lotta impari contro un incredibile ed agile esperto di scazzottature come mai mi sarei immaginato. Ci separò, o meglio bloccò Loris, Luigi, suo cugino. Era il più grande ed il più grosso di tutti noi ed anche il più buono. Il Garrone della nostra classe. Gli episodi del libro “Cuore” ce li leggeva anche la nostra maestra, ma era la sua collega Manzolini che li interpretava con una tale intensità ed una forza vocale, che mi sembra ancora di sentirne le parole rimbombare tra le mura dell'aula. Ce li recitava quando sostituiva la nostra maestra, che era molto buona ed anche brava, e quasi come una seconda mamma per me. Aveva molti figli ed uno, poverino, molto malato. Dicevano così, ma un giorno lo vidi e rimasi atterrito. Condannato su un letto da un fisico contorto, viveva una di quelle vite che ti fanno chiedere perché debba esserci tanto dolore. Emetteva insieme alla bava, parole attorcigliate ed incomprensibili, con uno sforzo che gli scuoteva il corpo e che poteva incredibilmente concludersi con una risata. Proprio ieri è morto Enzo Jannacci e su g+ hanno inserito un suo aforisma: "L'esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso sempre e comunque". Ecco, era uno di quegli spazi per i quali potrebbe scegliersi solo il comunque avendone la forza, sapendo che non se ne comprenderanno mai le ragioni.

I contatti con Piero sono durati più a lungo. In pratica per tutto il quinquennio delle superiori. Natale, Pasqua, le ferie estive e più di qualche fine settimana, li trascorrevo dai nonni. Così mi trovavo con Piero. Discutevamo di tutto, dai sentimenti alla politica, facendo spesso le ore piccole nelle notti estive lungo le strade deserte del paese. I contatti successivi ai nostri venti anni si diradarono invece rapidamente, fino ad interrompersi del tutto.

Nonostante i miei timori riuscii comunque, nel nuovo paese, a farmi nuovi amici. Renato e Claudio frequentavano la mia stessa classe; ma anche altri compagni divennero miei buoni amici, pur essendo di paesi diversi. I miei orizzonti in fondo si allargavano e tutto sommato andò meglio di quanto pensassi. Renato mi insegnò, una sera nebbiosa di fine ottobre, da quale barbiere andare e quello divenne il mio barbiere, anche se poche volte l'anno per la verità. La prima volta che andai a trovare Claudio, la sua casa mi parve bella perché aveva le scale interne di marmo lucido ed intorno c'era un piccolo parco.

Mia mamma aveva il suo lavoro e lasciare il paese credo non le fosse stato molto difficile, a parte il fatto di essersi allontanata dalla casa materna. Finalmente la nostra famiglia aveva una casa sua che, pur se popolare, le e ci doveva apparire quasi signorile.

Non ho mai potuto parlarne direttamente con lui, ma credo che per papà sia stato più difficile. Tanto che io penso addirittura che il distacco, l'essere strappato dalla sua terra, dalle sue abitudini, dal teatro delle sue possibili realizzazioni, pur trasformatesi tutte in illusioni e delusioni, sia stato, se non la causa, almeno un fattore che ne ha accelerato la fine prematura. Trovare nuovi amici, cercare nuovi interessi in un ambiente completamente nuovo, ridiventare insomma una figura conosciuta che può dire la sua, che può essere ascoltato o combattuto, è molto difficile ad oltre cinquant'anni, per tutti penso, ma in particolare per chi ha già attraversato crisi, delusioni e sta per sentirsi inutile. Nel paese non aveva realizzato molto. Anzi; ma era il suo paese, era la sua terra, c'era stata la sua casa, c'erano i suoi boschi, c'era il suo fiume. In pieno periodo fascista aveva fondato la cellula comunista, ma quando la guerra finì fu il primo a non trovare né lavoro né impiego. Non so di preciso cosa avvenne nei primi anni del dopoguerra, non so come mamma abbia conosciuto papà, ma ad un certo punto dovevo nascere io.

Abitavamo inizialmente in un appartamento abbastanza nuovo. C'erano le piastrelle, ed era sulla strada che dal centro portava sul Po, una via percorsa dalle processioni. Tra queste ce n'era una che mi affascinava: quella del Corpus Domini. Si gettavano i petali dei fiori, rose, peonie lungo la strada. A volte lo faccio nel mio giardino e cospargo l'erba con i petali delle rose che stanno per appassire. Non lo ricordo direttamente, ma mamma me lo raccontava spesso, concludendo sempre con un sorriso. Avevo un anno e mezzo e per vedere la processione uscii di casa tutto nudo e mi fermai sul cancello. I partecipanti gettavano i petali per terra mentre recitavano le loro litanie, e passando davanti al cancello guardavano quel bambino che li osservava incantati, e ridevano.

Dicevo dei miei sedici anni quando papà morì. Credo siano passati ben pochi giorni in questi quasi cinquant'anni in cui non abbia pensato a lui. È così, man mano che la nostra vita esterna avanza e si popola di fatti e nuove persone care, la nostra vita interna si riempie di tutti coloro che l'hanno forzatamente lasciata. Immagini e colloqui muti nascono nei momenti in cui la realtà intorno tace. Di giorno, di notte, nei sogni simbolici. Ho pensato più volte a cosa ci siamo scambiati nel breve periodo in cui eravamo insieme... ci si poteva parlare... potevo chiedergli...ecco è un forte rammarico accorgersi di non averlo fatto. Avrei voluto sapere di più della sua vita, della sua famiglia, del suo lavoro, delle sue sensazioni, delusioni, amarezze, gioie. Di come conobbe mamma, di come è stata la loro vita insieme, cosa rappresentavo per lui... Per sapere, confrontare, per trovare un filo, un senso. Niente, sempre dopo ci si accorge di quel che si sarebbe dovuto fare o dire, sempre dopo, quando il tempo è finito, quando si scendono le scale ed una porta si è chiusa alle nostre spalle.

La figura principale per me era mamma, come credo sia per la maggioranza dei bambini. Papà c'era, ma come sullo sfondo.

Alle elementari papà teneva molto ai miei disegni con gli acquerelli. Aveva frequentato la scuola d'arte, ma non so se l'abbia conclusa o meno. Una volta pasticciai con un castello in cima ad un monte e ricordo che ero molto preoccupato del suo giudizio che sarebbe stato negativo, come fu, anche se mi pare di cogliere nell'immagine della scena un suo benevolo sorriso.

Quando persi il contrappeso dell'equilibrista sul filo, dono della befana, mi aiutò a costruirne un altro usando i piombi che utilizzava nella pesca. Fuse il piombo in un pentolino e realizzò un contrappeso simile a quello rimasto. Fui contento del rimedio anche se purtroppo non era perfetto.

Non mi accorsi mai che era lui a inventare trucchi per farmi credere alla befana, come il guanto bianco che ondeggiava nella cappa del camino od il rumore di passi sul tetto.

Amava pescare ed a volte mi portò con lui. Si costruiva le canne con i bambù ed usava un mulinello Alcedo. Conservo ancora il cestino porta pesci costruito con fil di ferro intrecciato, una delle pochissime cose che di lui mi sono rimaste.

Qualche volta, nel primo pomeriggio, mi mandava ad acquistare cinque sigarette nel bar di piazza. Fumava le Stop senza filtro ed aveva il dito indice della mano destra del colore del tabacco.

Mamma diceva che non c'era tempo che lo fermasse alla sera per uscire ed andare al bar. Allora i tempi erano così: di sera uscivano solo gli uomini che si trovavano nei bar per giocare a carte e discutere di politica. Amava giocare a carte, anche a poker. Non so a che livello fosse. Qualcuno una volta mi raccontò di una sua lite con il mio barbiere del paese, lontano parente di papà mi pare. (Ma quanti mi pare su tutto ciò che ho vissuto, su tutto ciò che ora vorrei conoscere nei dettagli. Il mio passato sono bolle sparse che appaiono più o meno sfuocate dietro la nuvola degli anni come tante piccole lune!)

Una volta, mentre parlava con mamma, gli sentii dire di qualcuno che era un "rompi coglioni" o che aveva "rotto i coglioni", o che era un coglione (un cojòn) insomma uno di quei concetti lì. Io chiesi:"Ma cosa sono i coglioni?". Avevo una decina di anni ed a quei tempi non eravamo svegli come i ragazzi di adesso. Almeno io non lo ero. Rivedo ancora il sorriso di mamma e risento le sue parole: "Ecco, adesso mo, spiegagli tu cosa sono". Ma non me lo spiegò, pur sorridendo anche lui. E nemmeno mamma. Io non insistetti, però intuii cosa fossero e mi vergognai un po' di averlo chiesto, perché avrei dovuto capirlo da solo. Si trattava di uno di quegli argomenti che allora erano tabù in famiglia. Certe cose si imparavano fuori della famiglia. Costituivano i pezzi un un puzzle che poi si cercava di ricostruire da soli.

Erano molto accese le discussioni tra papà e zio Bino durante la vendemmia. I nonni avevano un piccolo vigneto. Quelli di una volta con i filari sostenuti da bei pali di legno, l'erba sotto e qua e là piante da frutto: albicocco, pesco, susino, pero. Insomma un bel posto d'estate. La vendemmia avveniva tra fine settembre ed inizio ottobre. Mamma e papà aiutavano i nonni e zio Bino ed ero anch'io ingaggiato. Non mi piaceva moltissimo passare giorni interi a staccare i grappoli d'uva e riempire e spostare le ceste ( e nemmeno a mio nonno, che preferiva dare qualche suggerimento, cogliere qualche grappolo lentamente, quasi studiandolo, per poi tornare al suo sdraio e leggere il Gazzettino) ma non mi sentivo di rifiutare. Tra l'altro mi piaceva la pigiatura, che allora si faceva con i piedi: sopra il tino veniva appoggiata la "fularòla" ( non so ancora come si dica in italiano) di legno. Vi si versavano una o due ceste e si pestava l'uva. Il mosto gocciolava nel tino ed era una sensazione gradevole affondare i piedi nell'uva. All'inizio, se devo essere sincero; poi in realtà diventava faticoso e sembrava che le ceste non finissero mai. Ma non avevo il coraggio di dire che ero stanco dopo aver insistito per essere io il pigiatore. Successivamente zio Bino acquistò una macchina per pigiare l'uva. Una vasca che conteneva un paio di ceste d'uva, con due rulli dentati che ingranavano tra loro e che, ruotando azionati da una manovella esterna, catturavano i grappoli d'uva schiacciandoli. Era abbastanza divertente azionare la manovella, ma presto il braccio si stancava. Più affascinante però restava la pigiatura coi piedi.

Come dicevo, durante la vendemmia nascevano discussioni tra papà e zio Bino: sulle questioni politiche avevano idee opposte. Crescendo cominciai anch'io ad avere qualche idea, e pur non sapendo proprio riferire i termini di qualche discussione, so che con zio Bino finivo per sostenere le idee di papà e viceversa, con papà finivo per sostenere le idee di zio Bino. Ma non mi ero ancora ben formato, non avevo una visione chiara delle cose. A dire il vero non ce l’ho nemmeno ora. Anzi, mano a mano che l'età avanza, tutto si ingarbuglia ed ogni idea diventa incerta; sembra che una ragione non esista, che non ci sia una strada unica e chiara che conduca nel posto giusto. Tutto diventa un turbinio vorticoso ed incontrollabile cui noi, pur esprimendo un parere, possiamo solo assistere per vederne l’evoluzione. Ma tutto questo è un altro discorso, anche se è il punto d'arrivo di ciò che avvertivo anche allora, e cioè che alla fine contavano ben poco le idee diverse per me. Zio Bino ad esempio continuò ad essere il secondo papà, quello che mi faceva partecipare concretamente a tutte le novità tecniche: radioline a transistor (mi regalò una Voxson, che aveva una custodia in pelle nera traforata), giradischi, telescopi, cinepresa, proiettore, macchina fotografica, gite. Con la sua cinquecento mi portò anche all’Arena di Verona dove assistei al Ballo in maschera ed alla Norma. Insomma, se anche avevo qualche idea diversa dalla sua, non mi importava proprio nulla. E nemmeno a lui.. .

Mio papà non mi ha mai elogiato molto. Non ricordo nemmeno un elogio diretto a dire il vero. Non so con i suoi amici al bar. Forse, almeno penso, quando inaspettatamente mi aggiudicai la pagella d'oro in quarta ginnasio. Era un premio che la provincia attribuiva al promosso con la media più alta e finii perfino sul Gazzettino. Concludevo il primo anno nel mio nuovo paese, e lui con una certa regolarità ritornava al vecchio, dove il suo cuore era rimasto, con un motorino, un "Vivi Gioi", grigio con il parabrezza e gli alettoni paragambe, tipo lambretta o vespa. Un motorino che aveva sostituito il bianchino di mamma, senza successo: mamma non lo poteva soffrire, perché, secondo lei, era una solenne fregatura. Ne aveva sempre una: si ingolfava spesso, ed una volta mamma lo buttò a terra infuriata, sulla stradina in terra battuta che portava alla casa di nonna.

Mia nonna invece si vedeva che era contenta di me. Era anche convinta che io fossi migliore di Piergiorgio, il nipote di una sua collega maestra, in pensione come lei che, secondo mia nonna, vantava troppo le doti di suo nipote. Ma in genere credo che le nonne siano tutte così. Stravedono per i loro nipoti più vicini, forse più delle mamme.
Anche mamma era abbastanza contenta di me, per quel che riguarda la scuola, meno per altre cose; la mia timidezza, che secondo lei confinava con la testardaggine. Non feci nulla, per esempio, per accontentarla ed imparare musica e suonare la fisarmonica. La facevo anche arrabbiare, non so più per cosa, ma ricordo che mi rincorreva per darmi qualche scappellotto, mentre io scappavo intorno alla tavola. Una volta, siccome non riusciva a prendermi, mi lanciò una ciabatta che però schivai. Ero anche schizzinoso nel mangiare. Delle verdure che a lei piacevano tanto e tutte, mangiavo solamente l’insalata riccia. Le minestre non le amavo per niente, tranne i risini, che chiamavamo “pasta ad puja”. Avrei mangiato solo carne e pasta asciutta. Una volta c’era zuppa con piselli. Io la rifiutai schifato. Mamma, con papà d’accordo, decise di farmi saltare il pasto ed a cena mi ripresentò lo stesso patto. Forse per la fame mangiai quella zuppa. Ma non molto dopo vomitai tutto. Non ricordo più altri tentativi di farmi mangiare a tutti i costi ciò che non mi piaceva. I gusti poi si vede cambiano, ed ora mangio abbastanza verdura, piselli compresi. E mi piacciono anche. Per le minestre invece non ho ancora una grande passione e quella che ancora preferisco sono i risini oltre ai tortellini in brodo che adoravo anche da bambino. Rappresentavano le feste, Natale, Pasqua, ed ancora del resto.

Come ho detto, papà era disoccupato quando ci trasferimmo.
Pochi mesi prima di morire aveva però trovato un piccolo impiego nella locale centrale del gas. Il padrone, uno dei signorotti del paese, conosciuto frequentando il caffè grande, gli aveva offerto un lavoro part-time ( una volta però non si diceva così) senza un contratto vero.
Il compenso concordato mi pare fosse di trentamila lire al mese, in nero.
Non era molto, ma rappresentava una possibilità di uscire dal tunnel della disoccupazione e dalla sensazione di fallimento ed inutilità che probabilmente lo assillava. E che era senz'altro alla base di qualche discussione che ogni tanto avveniva con mamma.
Si trattava ad ogni modo di un aiuto per mamma che, come insegnante, ancora precaria a dire il vero, aveva uno stipendio attorno alle centomila lire. Corrispondeva in pratica all'affitto del nostro appartamento IACP di venticinquemila al mese. Insomma forse i miei genitori avevano l'impressione di stare uscendo dalla povertà.
Una povertà che, a dire il vero, io non avevo mai avvertito. Io ho sempre avuto tutto e non ricordo particolari desideri insoddisfatti. Forse anche perché c'era sempre, nei momenti di difficoltà, l'aiuto di nonna che, abbastanza povera da sempre, raggiunta la pensione si sentiva ricca ed era ormai abituata a non avere dei bisogni per sé, ma a soddisfare solo quelli dei suoi cari.

Era un lavoro da impiegato quello nuovo di mio papà, ed un giorno lo aiutai a preparare una tabella ed ero contento di poter fare qualcosa per lui.
In quel periodo avevo imparato a giocare a scacchi. Tanto per ribadire che non ricordo desideri irrealizzati, al sorgere di questa mia passione, subito mamma mi accompagnò ad acquistare gli i scacchi Staunton in legno, che tenevo in un sacchetto di panno verde che mi confezionò lei. La scacchiera la realizzai io in compensato, pitturando a mano le caselle di bianco e marron. Poi acquistai il manuale di Giorgio Porreca e pensavo di poter diventare più bravo di come in realtà diventai. Ma si sa...i sogni sono diversi dalla realtà e non so quanti abbiano le capacità e la determinazione per realizzarli. Mio papà diceva di saper giocare. Non era un gran giocatore neppure lui, ma vedendo che facevo progressi, osservava interessato qualche partita con i miei amici. Ricordo che una volta disse al mio avversario, Renato, che aveva anch'egli imparato il gioco da poco, di stare attento alla mia mossa di cavallo che attaccava il suo arrocco. Era un trucchetto in cui lui stesso era caduto giocando con me. Al gioco degli scacchi associo una canzone:"Una lacrima sul viso" di Bobby Solo: suonava sempre nel juke-box delle Acli dove, con scacchi assurdi, giocavo spesso con Coeli.

Non avevamo fatto molto insieme fino ad allora, io e mio papà, e mi sembrava che anche gli scacchi fossero l'inizio di una collaborazione che ci avrebbe arricchiti entrambi.

Invece...

Una domenica arrivo a casa verso sera.
Papà non c'era e mamma era molto agitata. Lo avevano ricoverato all'ospedale.
Era tornato nel pomeriggio dal caffè, dicendo di non sentirsi bene.
Ma lo diceva spesso e molte volte era serio e si teneva la mano sul cuore.
Tutti gli dicevano che era un fifone e probabilmente un po' di verità c'era, non è che la gente inventi proprio tutto. Ma quella domenica lì la cosa era purtroppo veramente seria, drammaticamente vera.
Mamma chiamò il dottore. Che venne, ma, sentite un po', se questo è ammissibile, quel medico la prima cosa che chiese fu:
"E chi è che paga qui?"
"Ma vi pare?" concludeva sempre il racconto di quel triste giorno, mia mamma imbestialita "con Remo che poverino era lì sul letto che stava male!"
Aveva tutte le ragioni di questo mondo, direi, e quel medico fu segnato sulla nostra personale lista nera per sempre. Proprio ieri ne ho visto l'epigrafe. Lui la sua vita completa l'ha fatta. Può darsi anche che se la sia meritata, che quella sua richiesta fosse legittima. Non so, non posso e non voglio giudicare. Però non mi sono mai spiegato perché mio papà se ne sia andato così presto senza aver avuto grandi soddisfazioni nella vita. Non le meritava? Cosa aveva sbagliato? Ma lo so che sono domande che non ha senso porsi, domande senza una possibile risposta. Però vengono; sembrano quasi un processo fisico naturale come la legge di gravità. Forse per crearci una motivazione, per continuare la nostra vita alla ricerca di un senso che non troveremo mai; ma, senza tale ricerca, la vita non avrebbe senso.
Beh, lasciamo stare queste attorcigliate tautologie ossimoriche.
Papà se ne andò per sempre la notte stessa, in silenzio.

Il pianto di mamma che, salendo le scale del nostro condominio, invocava disperata il nome di Remo, mi svegliò alle cinque del mattino.

Lo andai a vedere freddo, rigido ed immobile sul tavolo di marmo.

Un’immobilità, un silenzio ed un freddo che mi penetrarono dentro per sempre.
Io ero stato la sera a trovarlo e l'avevo visto serio e preoccupato nel letto, ma nemmeno lontanamente immaginavo l'epilogo definitivo che sarebbe giunto di lì a poco.
Non so quali mezzi allora ci fossero nell'ospedale ed anche quali medici, ma di sicuro si fece ben poco per capire cosa si potesse fare per salvarlo.
Si limitarono a sistemarlo nel letto dal quale mi guardò senza dirmi parole, per l'ultima volta, attendendo che gli eventi facessero il loro corso. Papà era un signor nessuno, come lo siamo tutti, ma si sa, alcuni lo sono molto più degli altri, specialmente se poveri.
Deve essere così?
Tutti, penso, rispondiamo no, sapendo bene che quella è la teoria, e che la realtà è diversa.
La sera guardai alla televisione una puntata de "I miserabili", una fiction, si dice oggi, tratta dal romanzo di Victor Hugo che piaceva molto a papà. Amava anche Tolstoi e Dante Alighieri. Ogni tanto recitava l'inizio della Divina Commedia, con un'ammirazione simile a quella che Roberto Benigni è riuscito a portare in teatro ed in televisione ed a trasmettere al pubblico.

Al paese lo avevano soprannominato "al leon".

Non ho mai chiesto il perché. Faccio ben poco per conoscere le cose con precisione. Solo ipotesi, ma non le verifico sul campo. Così, pensando alla sua gracilità, ho pensato ad un soprannome per contrasto; o magari gli era stato dato per il suo spirito combattivo nel periodo fascista; oppure non era altro che il nome di Tolstoi di cui magnificava le doti narrative ed i contenuti di "Guerra e Pace".

Avrebbe voluto essere in grado di scrivere. Ogni tanto mi recitava una sua breve poesia: "Che moti che palpiti mi sento nel cuore, qual fiamma d'amore..." che lui aveva scritto non so per chi in gioventù.
Aveva anche in testa una romanzo, una storia ambientata sulle rive del Po, con una chiesetta nel bosco, e qualcuno che trovava o scopriva qualche verità sull'animo umano, insomma cose così.
Quando ci trasferimmo nel nuovo paese, comprò un quadernetto dove provò a ricostruire qualcosa di quanto aveva scritto prima della guerra, tra i venti e i trenta anni quindi, e che aveva perso; ed iniziò il suo romanzo, ma non scrisse granché. Non sapevo di questo suo tentativo e non l'ho mai visto scrivere. Il quadernetto l'ho trovato molti anni dopo, dopo la morte di mamma, tra gli oggetti che lei conservava nel cassetto del comò. Piccoli lavoretti, spille, fotografie, qualche cartolina, qualche santino. C’è il tentativo di ricordare, di abbozzare una storia, il sogno di riuscire a darle corpo, e, nelle pagine strappate, la progressiva consapevolezza di non riuscirci. C’è però la sensibilità che mamma un giorno, forse in un bosco sul Po, raccolse.

La scintilla che mi ha dato la vita.

Così mamma restò sola con me.
Non aveva ancora compiuto quarantacinque anni.
Io divenni l'unico motivo della sua vita.
Ne avrebbe avuto un altro, ma si era spento nascendo, sei anni prima. Un parto difficile e finito male, con Tiziano, così si sarebbe chiamato mio fratello, schiacciato dal forcipe.
Anch'io, raccontava mamma, ero stato estratto con il forcipe, ma io ce l'avevo fatta. Non so se l'esito del parto di Tiziano avesse potuto essere diverso. Mamma ne era convinta però. Pianse molto, ed incolpava il primario e la sua equipe, di cui faceva parte anche l'ostetrica, un’amica di gioventù.
Un’amicizia che finì per sempre.
La presenza di papà dentro di me, ora che era definitivamente assente dalla realtà, aumentava, e con essa i miei muti colloqui con tutte le parole che non avevamo potuto dirci in tempo.
Ricerco qualche foto, qualche segno esterno della sua vita.
Trovo pochissimo.
Un paio di foto, il cestino dei pesci, lo smilzo quadernetto con il tentativo di una storia e tante pagine strappate.
La mia prima macchina fotografica, un'Agfa ad obiettivo fisso, me la regalò mamma l'estate di quell'anno triste, quando ci recammo ad Aosta per trovare le sorelle di papà.
Zio Bino aveva realizzato anche un breve filmato con la sua piccola cinepresa, di un pomeriggio di pesca insieme sul Reggiano, ma lo ricordo solamente.
Dentro di me però ha lasciato molto del suo sentire.
I suoi sogni diventati i miei, le sue speranze, le sue incertezze, le sue paure sono diventate le mie, ed anche le felicità provate.
Quelle mancate me le affidò affinché le realizzassi per lui e per me, sentendo di non aver più tempo, con quell'ultimo sguardo triste da quel povero letto d'ospedale in quella tristissima domenica sera.

Papà a pesca nel Po

Papà a pesca nel Po

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Commenti e note

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Vi ringrazio per la pazienza che avete nel dedicare attenzione a ricordi privati. Io non so inventare storie, cerco solo di ricostruire gli avvenimenti della mia vita. Lo faccio per me fondamentalmente, per trovarvi un senso, anche se, probabilmente, il senso cercato non esiste, e, come tutti forse, non saprei nemmeno definirlo. Ciò che accade non ha di per sé un senso, non avviene per insegnarci qualcosa; accade e basta. Non possiamo che esserne osservatori, attribuendovi il significato più adatto per continuare la nostra vita.

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Ho sempre pensato, ma non l'ho mai confessato a nessuno, che se si tenesse di più in conto l'"accadimento" della morte, sicuramente i nostri rapporti con gli altri sarebbero migliori. Ma la natura tutta, è così propensa alla vita che Essa viene messa da parte, fino a dimenticarcene e addirittura a considerarLa, un evento casuale che colpisce gli "altri" e non noi. Non so voi e non vorrei sembrare un pessimista, ma io, che ormai ho una certa età, ci penso spesso, ma al contrario di quanto sembrerebbe, proprio per questo, ho incominciato ad apprezzare di più la vita e a cercare di assaporarne quanto più possibile ogni aspetto, anche il più insignificante. Capisco perciò il suo rimpianto di non aver potuto "vivere" di più il suo rapporto con suo padre ma anche se io non sono credente nel senso classico del termine, credo che con la morte non finisca la vita, ma ne inizi un'altra, in un'altra forma magari...sicuramente, ma che di sicuro non può finire così, perchè allora tutto questo non avrebbe senso, chè un senso lo deve avere per forza, se no non si spiegherebbero i suoi ricordi, il mio stare a scrivere adesso in questo momento, la musica, l'affetto degli altri e per gli altri, la natura e tutto quello che ci circonda. Un saluto.

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di ,

I ricordi sono sempre una ricchezza che non ha prezzo. Bagaglio di una vita.

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Io avverto una grandissima "ricchezza" in questi ricordi, talvolta offuscati, talvolta non abbastanza delineati come si vorrebbe che fossero, forse col rischio di volerli un po'adattare ma senza mai alterare. C'è tutta la ricchezza delle cose comuni, proprio come l'acqua di un fiume che scorre inesorabile verso la foce. Ancora una volta ti ringrazio per avere condiviso una parte del tuo vissuto che inevitabilmente porta chi la legge a riflettere anche sul proprio

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