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Murtadèla, pan e furmài

Nonna mi consegnava tre libretti: il nero lucido, l'azzurro ed il grigio opaco.
Quelle specie di moleskine contenevano il database della spesa alimentare.
Li infilavo nella sporta appesa al manubrio della bici, e via verso la piazza del paese.
Allora costumava così.
I soldi erano pochi e le botteghe facevano credito. Il bottegaio segnava gli acquisti, oltre che sul suo registro, anche sul libretto del cliente che, a fine mese, saldava il debito.

Nel paese c'erano tre botteghe di generi alimentari: la Deroèna, Cide e Pruàs.
Forse il debito suddiviso in tre parti appariva più tollerabile e poi, in questo modo, nonna non faceva torto a nessuno.
Ad ogni modo ognuna delle tre aveva la sua specialità.

Dalla Deroèna acquistavo la mortadella consegnando il libretto nero lucido.
“Murtadèla bona cme quela ca vend la Deroèna, a nan ghn’è minga da nissùn àltar”1.
Compravo anche qualcos’altro, la pasta ad esempio, lo zucchero, o lo sgombro.
Il prodotto, nella quantità desiderata, mezzo chilo di zucchero o etto di sgombro che fosse, veniva accartocciato nella carta apposita: la "velina" (così chiamavamo la carta (politenataPS)->oleata per lo sgombro sott'olio, la blu per lo zucchero, la carta paglia gialla per la pasta o la farina o il riso.
Ogni bottegaio era abilissimo nel ripiegare i bordi dei fogli, strappati su misura, usando pollice, indice e medio delle due mani, come fossero cucitrici. Provavo anch’io a casa con vari fogli, ma non riuscivo mai ad ottenere un cartoccio a chiusura ermetica come il loro, che non perdeva la piegatura, come invece capitava ai miei. Allora non c’erano confezioni pronte, ed il problema rifiuti doveva aspettare qualche decennio per affermarsi. All’umido ci pensava il letamaio (l'aldamàr, in dialetto ferrarese; el luamàro in quello veneto).
La “murtadèla” era dunque il prodotto tipico “dlà Deroèna”. Mi sembra di sentirne ancora l’aroma che si infila nelle narici mentre apro la porta di vetro. L’enorme salume era sempre pronto per salire sull’affettatrice manuale rossa a volano. Dietro il bancone, lei, la Deroèna, una solida bottegaia, con una bella chioma di capelli neri ondulati, labbra con rossetto carminio e voce squillante. Serviva insieme al figlio Elvezio, viso rotondo, capelli neri a spazzola, dalle fluide movenze. Sentivo qualche adulto dire che Elvezio “al ghea na vena ad dolz2” ma io non ne comprendevo il significato. Più raramente c’era anche Memo, il marito, camice blu, occhiali con montatura nera, un po' burbero ed un po' scocciato, forse per la “vena ad dolz” di Elvezio, chissà ?! (era un periodo oscurantista e l'outing non si sapeva che fosse). Memo gestiva prevalentemente il bar insieme all’altro figlio, Alberto più brusco di Elvezio ed un po' irascibile.

Il bar "da Memo" era uno dei tre del paese. Era frequentato in genere da chi abitava in periferia, ammesso che si possa parlare di periferia per un paese il cui centro, attraversato dalla provinciale, era formato da alcune decine di case, la chiesa, il campanile, la canonica, il comune e le scuole elementari.
Più interessanti per me erano però gli altri due bar.
"Dala Vitorina", era condotto dai fratelli Loris e Renato, detto "Pumèla" per il suo lucidissimo cranio, insieme alle rispettive mogli, Renata alta e dinamica, e Bruna, flebile e problematica.
Era stato fondato dalla madre di Renato e Loris, la Vittorina appunto, che continuava a gestire l'edicola adiacente da cui era partito tutto. Io ero appassionato di fumetti, due in particolare: Blek Macigno e Capitan Miki. Ne arrivavano a volte solo due copie e, per non perderle, io e Romualdo, il giorno dell'uscita ci preparavamo davanti alla porta ancora chiusa dell'edicola, aspettando che la Vittorina aprisse e ci consegnasse le agognate strisce da venti lire. Cercavamo anche di arrivare uno prima dell'altro poiché a volte arrivava una sola copia.
Il bar "Dala Vitorina" era frequentato dai nostri papà, mio e dei miei amici, ma anche da noi ragazzetti, principalmente per giocare a bigliardo che si trovava al piano superiore, a stecche o boccette,
L'altro bar era il più antico diciamo; sui vetri delle porte d'ingresso, che somigliava ad un saloon western, era scritto il nome che seguiva una linea arcuata con un font, ora si dice così, tipo Curiz MT: Caffè Centrale. I sigari toscani e le pipe dei giocatori di carte che affollavano la sala di ingresso, lo annebbiavano perennemente, ed al padrone, un vecchietto minuto, era stato attribuito il soprannome che fotografava, in un certo senso, il suo locale, e che divenne per tutti, "da Fumìn". Ai miei tempi lo gestivano i figli del vecchio Fumìn, Dario e Loris.
Anche qui, come da Memo del resto, c'era la sala bigliardo.
Vi si svolgevano anche sfide tra generazioni, come la volta che io, dodicenne, battei a boccette Punciàn, che aveva dai quaranta ai sessanta o più anni (allora non sapevo distinguere bene un’età tra i trenta ed i sessanta).

Cide era il fornaio del paese e nella sua bottega consegnavo il libretto grigio per acquistare il pane.
Anche qualcos'altro, forse, ma “el pan” era il motivo della spedizione da Cide.
Il forno con l'adiacente bottega era a trecento metri dalla piazza, poco prima dello stradone che portava sul Po.
La fragranza del pane mi avvolgeva già mentre posteggiavo la bici, specie se ci andavo di prima mattina.
Mmmm?!...che faccia aveva Cide?
Ah, ecco: lo vedo ora sbucare dalla porticina che comunica con il forno!
E' un omino sottile, appuntito e sorridente, fasciato da un camice grigio come il cappello di qualche numero più del necessario. Dà un'occhiata ai clienti, scambia qualche parola con la moglie che li serve, quindi scompare di nuovo oltre la porticina.

La specialità di Pruàs, dove consegnavo il libretto azzurro, era il formaggio ("al furmài").
Il profumo del grana mi penetrava nelle narici non appena spingevo la porta della bottega per entrare. L’ambiente era meno luminoso delle altre due botteghe, come se non ci si dovesse distrarre con la vista. Il senso più coinvolto doveva essere l’olfatto.
Oltre al grana c'erano anche altri formaggi, emmenthal e caciotta per esempio, ma il grana la faceva da padrone; e direi che ancora adesso lo è. Giovanna me lo conferma, e quando siamo a tavola ed io per l'ennesima volta (eh, i vecchi si ripetono com'è noto) racconto delle tre botteghe del mio paese, lei ricorda che suo papà Toni, amava completare il pranzo secondo il proverbio:
"Da tavola non alzarti mai, se la to boca la 'n sà da furmài"; ed aggiungeva:
“A magnarìa un tuchìn de grana, Maria, e na nos”3.

Mmmm, ancora?!... Che faccia aveva, Pruàs?
Toh, eccolo apparire mentre scosta la tenda verde della porta che comunica con il buio magazzino.
Faccia lunga e scura, pelle legnosa, naso aquilino, porta un cappello a tesa larga ed indossa un un grembiule blu cosparso di briciole di formaggio. Stringe il coltello a mandorla nella mano destra, e si dirige verso una forma di grana per inciderla e ricavarvi il pezzo per il cliente...


L'immagine emersa dal passato scompare con una dissolvenza incrociata verso il testo wiki che sto scrivendo.




Interrompo la digitazione e salvo la pagina.
Incrocio le mani dietro la nuca ed allungo le gambe appoggiandomi allo schienale della poltrona.
Rileggo sul monitor la scarna sceneggiatura di un film che posso dire antico.

Socchiudo gli occhi.

Lascio scorrere nella mente i fotogrammi immagazzinati nella chiavetta USB della memoria.
Mi chiedo perché tento di riprodurli con le parole in questo spazio virtuale diventato un prolungamento del mio mondo reale, una specie di oltremondo4, a volte dolce, a volte amaro.

Non riesco a darmi una risposta unica. Ce ne sono tante mescolate e confuse, inabissate nel mistero di ciò che siamo.

Sento che nelle sbiadite sequenze che escono dalla chiavetta della memoria, cerco sempre il senso di storie che un invisibile regista dirige.

Quel senso che forse non ha senso cercare ma alla cui ricerca è difficile, se non impossibile, sottrarsi.

Note

1 Mortadella buona come quella che vende Deroèna non ce n’è da nessun altro
2 Aveva una vena dolce
3 Mangerei un pezzettino di grana, Maria, e una noce.
4 Così lo chiama Alessandro Baricco nel suo libro "The Game"
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PS: per la carta "velina" vedere il commento di mario maggi ;-)

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Commenti e note

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di ,

i miei ricordi "caseari" di infanzia sono invece quelli del provolone Auricchio stagionato, con la lacrima; mai più visto, né più sentito altrove come sapore...

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di ,

Non potevo perdermelo,letto tutto d'un fiato. La carta "velina"mi ha portato indietro nel tempo .. ricordi del negozietto vicino casa, l'"alimentari di enrico" e i cartocci di affettato ..che ricordi .. Su la mortadella, mi dispiace, ma dopo aver "degustato quella di Pigro in quel di Bologna in Piazza Grande " per me quella resta il top, ovvero la "mortazza" di riferimento, inequagliabile il servizio di Pigro. :) Grazie Zeno per la paicevole lettura. Alla prossima. ;)

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di ,

@mario: hai ragione naturalmente. Era più spessa di quelle attuali e stropicciandola il crepitio era come quello della carta, ancora più squillante.

@clavicordo: concordo sull'unico senso che ci è possibile dare alla nostra vita, anche se resta il desiderio di qualcosa di meno volatile.

@claudiocedrone: ero praticamente sicuro che botteghe con mortadelle buone come in nessun'altra bottega ne esistessero in molti altri luoghi;-)

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di ,

.... Quando la carta "velina" era carta oleata, il polietilene non era ancora in giro :-)

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di ,

"Quel senso che forse non ha senso cercare ma alla cui ricerca è difficile, se non impossibile, sottrarsi.". Mah, sai, secondo me (come forse ho già detto ripetendomi, perché ormai sono un po' vecchietto) la vita non ha un senso suo, ma noi glielo possiamo dare con il nostro percorso di affetti, di pensieri e di comportamenti. E mi pare che più o meno tutti facciamo un po' questo, con sostegno molto variabile della fortuna. Per me, ad esempio, la vita senza parmigiano (o anche grana) non ha senso.

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di ,

La murtadella bbona aqquà la teneva Benito bunalima... e aveva rigorosamente i pistacchi, ora la stragrande maggioranza se non la totalità dei compaesani vuole quella senza pistacchi che a me non attira per nie niente. Per i formaggi ho ricordi più arcaici (padovani) da bimbo rimanevo estasiato dalla vista e dal profumo delle enormi forme di parmigiano che vedevo "sotto il salone" e mi prometteva che se da grande fossi diventato ricco me ne sarei comprata una intera e me la sarei mangiata tutta... purtroppo ricco non ci sono mai diventato :/

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