24 febbraio 2018
Da alcuni giorni ascolto quasi ininterrottamente i tre album della raccolta “In direzione ostinata e contraria” di Fabrizio de André.
E’ il mio terzo acquisto su iTunes che praticamente scopro come distributore di musica dopo sette anni di Mac.
Nei primi due giorni di questa settimana ho seguito in TV la fiction sulla vita di Faber, così lo aveva soprannominato l’amico Paolo Villaggio.
Faber ha prodotto canzoni che per la mia generazione non potevano non esserci. Una sensazione che a cinquant’anni di distanza è ancora più forte.
Il disegno sopra è della primavera del 1968.
Lo ricordavo, e rovistando tra i miei antichi appunti, mentre il mio nuovo mini Hi-Fi Panasonic PM 250 riproduceva le canzoni di Faber, l’ho trovato; era nel quaderno dalla copertina rigida gialla, con gli esercizi di Analisi I; non mi aspettavo fosse lì, chissà perché; l’ho scannerizzato e riportato qui.
E’ l’immagine che ho sempre associato ai brani del primo album della raccolta.
Era il mio primo anno di università.
La mia provincia riservava due posti in collegi padovani per studenti che continuavano gli studi dopo la maturità.
Non che fossi stato particolarmente brillante alla maturità, ma avevo la media leggermente più alta di chi in fondo era come me, il mio povero e grande amico Claudio. Non posso non pensare al film Match Point di Woody Allen con la metafora della pallina da tennis che, colpendo il nastro, per una frazione di secondo rimane in bilico e poi cade casualmente in una delle due metà campo. Il caso è il padrone delle nostre vite, ed un evento insignificante ne determina direzione e sviluppo.
Così, per puro caso dunque, uno dei due posti era toccato a me, nel collegio Ederle; l’altro all’amico Renato, al Morgagni.
A Claudio invece, che non aveva nulla meno di noi due, toccava fare il pendolare, una difficoltà che gli intralciò il cammino di studio, ed anche la vita.
Ho sempre avuto paura ad essere lontano dalla mia casa, il rifugio che mi protegge dalle difficoltà del mondo. Sono sempre stato così e lo sono ancora. Non so se sia un fatto genetico, o la conseguenza del trauma della nascita con il forcipe, o la drammatica esperienza della colonia a sette anni.
Così anche il recarmi in collegio, che per me era una fortuna, questo lo capivo, non riusciva a rendermi felice e nemmeno tranquillo.
Come me la sarei cavata?
Provai la stessa sgradevole sensazione alcuni anni dopo alla partenza per il servizio militare.
Avverto ancora la leggera angoscia nella nebbiosa sera d’ottobre in cui, insieme a Renato, partii in treno per Padova. Cercavo di dissimulare, ma salutare mamma che restava sola a casa mi aveva disturbato, e non ricordo bene come entrai in collegio.
Comunque ci arrivai ed entrai.
Mi assegnarono la stanzetta, la duecento…x (non ricordo bene); circa due metri per quattro, lettino sulla sinistra, lavandino ed armadio sulla destra, scrivania vicina alla finestra che si affacciava sul cortile interno.
Cominciava la mia avventura universitaria.
Non ne ho ricordi precisi; la sento indefinita, come un sogno di cui non ho dimenticato alcune immagini. Sono i fotogrammi di un film di cui conosco a grandi linee la trama, ma del quale ho perso la precisa sequenza degli eventi.
Lo schizzo è uno di quei fotogrammi.
Rappresenta Mario, uno dei miei amici (riuscii a farmene qualcuno) del collegio, un’amicizia che sarebbe durata per l’intero corso universitario e che poi si è dissolta perché ogni vita, la mia forse molto più di altre, è come una goccia di vapore.
Frequentando le affollate lezioni di Analisi I e Geometria ai Paolotti, il tipo apparentemente sicuro che si aggirava tra i banchi, scendeva i gradini, andava nello spazio delle lavagne durante gli intervalli rumorosi tra una lezione e l’altra, con un sorriso perenne stampato in volto ed una leggera fessura tra gli incisivi superiori, mi risultava antipatico. Insomma un po’ troppo sicuro e disinvolto per me. Portava un cardigan di colore verde ossido di cromo, lavorato a mano con lana grossa, pesante, e sotto un altro maglioncino, cosa che mi sorprendeva, prima della camicia.
Quel tipo era Mario.
Sto frugando nelle tracce di quel tempo lontano, in qualche area di memoria che non so localizzare; tento di diradare la nebbia che mi separa dalle immagini e dalle sensazioni di allora, ma l’impresa è ardua.
Avrei dovuto in qualche modo registrarle su qualche supporto fisico esterno, ma ero troppo impegnato a cavarmela nel nuovo ambiente. Mi devo accontentare di flash immateriali (credo almeno) e slegati.
Anche Mario era ospite dell’Ederle e ad un certo punto siamo diventati amici; la mia stanza si è perfino trasformata nel luogo di ritrovo di un nutrito gruppetto: Paolo, Walter, Nevio, Sandro, Gasparino oltre a me e Mario e poi Antonio, Silvano, Elio, Sante.
L’inizio dell’amicizia con Mario, il fatto che più di ogni altro lo modificò ai miei occhi, fu proprio la scoperta delle canzoni di Faber quelle che sto ascoltando ora mentre scrivo, e che continuo riprodurre per ricercare l’atmosfera di allora, ma non solo.
Probabilmente per chiedere qualcosa di Analisi Matematica mi ero recato nella sua stanzetta, non ricordo più se allo stesso piano della mia od a quello superiore.
Mario era seduto in pigiama alla sua scrivania.
Stava riordinando gli appunti ed ascoltava musica.
Il Geloso dalla scrivania diffondeva nella stanza la canzone di Carlo Martello che torna dalla battaglia di Potiers.
Re Carlo tornava dalla guerra
lo accoglie la sua terra cingendolo d'allor.
Al sol della calda primavera
lampeggia l'armatura del Sire vincitor.
Il sangue del Principe e del Moro
arrossano il cimiero d'identico color
ma più che del corpo le ferite
da Carlo son sentite le bramosie d'amor.
"Se ansia di gloria, sete d'onore
spegne la guerra al vincitore
non ti concede un momento per fare all'amore.
Chi poi impone alla sposa soave
di castità la cintura ahimè è grave
in battaglia può correre il rischio di perder la chiave".
Così si lamenta il re cristiano
s'inchina intorno il grano, gli son corona i fior.
Lo specchio di chiara fontanella
riflette fiero in sella dei Mori il vincitor.
Quand'ecco nell'acqua si compone
mirabile visione il simbolo d'amor
nel folto di lunghe trecce bionde
il seno si confonde ignudo in pieno sol.
"Mai non fu vista cosa più bella
mai io non colsi siffatta pulzella"
disse re Carlo scendendo veloce di sella.
"Deh, cavaliere non v'accostate
già d'altri è gaudio quel che cercate
ad altra più facile fonte la sete calmate".
Sorpreso da un dire sì deciso
sentendosi deriso re Carlo s'arrestò
ma più dell'onor poté il digiuno
fremente l'elmo bruno il sire si levò.
Codesta era l'arma sua segreta
da Carlo spesso usata in gran difficoltà
alla donna apparve un gran nasone
un volto da caprone, ma era Sua Maestà.
"Se voi non foste il mio sovrano"
Carlo si sfila il pesante spadone
"non celerei il disio di fuggirvi lontano.
Ma poiché siete il mio signore"
Carlo si toglie l'intero gabbione
"debbo concedermi spoglia ad ogni pudore".
Cavaliere lui era assai valente
ed anche in quel frangente d'onor si ricoprì
e giunto alla fin della tenzone
incerto sull'arcione tentò di risalir.
Veloce lo arpiona la pulzella
repente una parcella presenta al suo signor
"deh, proprio perché voi siete il sire
fan cinquemila lire, è un prezzo di favor".
E' mai possibile, porco d'un cane,
che le avventure in codesto reame
debban risolversi tutte con grandi puttane.
Anche sul prezzo c'è poi da ridire
ben mi ricordo che pria di partire
v'eran tariffe inferiori alle tremila lire".
Ciò detto, agì da gran cialtrone
con balzo da leone in sella si lanciò
frustando il cavallo come un ciuco
tra i glicini e il sambuco il re si dileguò.
Re Carlo tornava dalla guerra
l'accoglie la sua terra cingendolo d'allor.
Al sol della calda primavera
lampeggia l'armatura del sire vincitor.
Non era la solita canzone, non era cantata nel solito modo, non era la solita musica. Era una ballata ironica, una storia divertente, una satira sul potere, una presa in giro di chi crede di appartenere ad una casta superiore.
Mi sedetti sul lettino ad ascoltare.
Mi sentii veramente stupido per avere avuto l’impressione che Mario fosse antipatico. Vederlo studiare nel succedersi della canzoni di Faber, me lo stava trasformando. Scoprivo un mondo che non conoscevo, ma che sentivo vicino, e che si infilava nella mia sensibilità ammutolita.
Oltre alla ironia dissacrante su Carlo Martello, scoprivo così Piero che non se la sentì di sparare a chi aveva il suo stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore, per non vedere gli occhi di un uomo che muore. Che invece ha paura, imbraccia l’artiglieria e non gli ricambia la cortesia. Piero cade a terra senza un lamento capendo, in un solo momento, che la sua vita finiva quel giorno e non vi sarebbe stato ritorno. Ed ora dormiva sepolto in un campo di grano, dove non c’erano né la rosa né il tulipano a vegliarlo dall’ombra dei fossi, ma solo mille papaveri rossi.
Nella città vecchia, una bimba cantava la canzone antica della donnaccia: “quel che ancor non sai tu lo imparerai solo qui tra le mie braccia”; quattro pensionati gonfi di vino cercavano la felicità dentro un bicchiere per dimenticare d’essere stati presi per il sedere; il vecchio professore cercava nel portone quella che, sola, gli poteva dare una lezione, quella che di giorno chiamava con disprezzo pubblica moglie, quella che di notte stabiliva il prezzo alle sue voglie. Nel vecchio molo c’erano ladri e tipi strani, ma se si cercava fino in fondo si comprendeva che, pur non essendo gigli, erano sempre figli vittime di questo mondo.
In via del campo una graziosa vendeva a tutti la stessa rosa, li guardava con un sorriso portandoli al primo piano in paradiso; si deve amare e ridere se amor risponde, piangere forte se non ci sente, perché dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.
Bocca di Rosa metteva l’amore sopra ogni cosa, ed il parroco che non disprezzava, tra un miserere ed un’estrema unzione, il bene effimero della bellezza, la volle accanto in processione; e con la vergine in prima fila e Bocca di Rosa poco lontano, portò a spasso l’amor sacro e l’amor profano.
Marinella scivolò nel fiume a primavera, ma il vento che la vide così bella dal fiume la portò sopra una stella. Un re senza corona e senza scorta bussò tre volte alla sua porta. Lei lo seguì senza una ragione come un ragazzo segue un aquilone. C’era il sole e aveva gli occhi belli; lui le baciò le labbra ed i capelli, mentre i fiordalisi videro con gli occhi delle stelle fremere al vento ed ai baci la sua pelle. Marinella, come tutte le più belle cose, visse solo un giorno come le rose, ed il suo re, che non la volle creder morta, bussò cent’anni ancora alla sua porta.
Non conoscevo ancora le canzoni di Fabrizio de André, ma quella voce calda, quelle parole chiare, le rime baciate, la musicalità ritmica e lenta e tenera, che raccontavano storie ironiche e la triste dolcezza di ambienti difficili e vite comuni, mi entrarono dentro come un liquido che si distribuiva nelle vene.
Sono diciotto anni che Fabrizio se n’è andato, a cinquantanove anni; chissà quante altre storie avrebbe potuto raccontare, ma forse la febbrile creazione della sua giovinezza che gli richiedeva una sigaretta dopo l’altra sciogliendone il fumo nell’alcol, gli aveva minato irrimediabilmente il corpo.
Quando ascoltai per la prima volta le sue canzoni avevo vent’anni; ora ne ho cinquanta di più e la loro suggestione non si è affievolita, ma arricchita.
Come ha detto Roberto Vecchioni, le canzoni belle sono fiori.
Le senti, le cogli e profumano la tua stagione.
Poi quella stagione passa, altre si succedono ma arriva ancora una nuova stagione in cui le belle canzoni rifioriscono.
Di nuovo le raccogli, e ripensi al tempo in cui avevi assaporato quei fiori la prima volta, rigirandoli negli occhi della mente con le mani del cuore.
Il profumo del passato arriva ancora dentro le vene trasportato da quelle stesse note, dalla voce che le accompagna, dalla ballata che aveva fatto palpitare, sorridere, pensare.
C’è qualcosa addirittura di più intenso e profondo ora, perché quelle note si amalgamano con tutta la vita che c’è stata dopo, con le gioie ed i dolori, e sembra che esse avessero anticipato tutte le future emozioni.
Una sensazione impregnata di dolcezza e di malinconia, che fonde il passato con il presente.
Penso a tutto quello che c’è stato nel tempo trascorso, alla mia vita che vi è cresciuta dentro, a come tutto appare grande fragile e breve, mentre ascolto le strofe del valzer per un amore:
Vola il tempo lo sai che vola e va
Forse non ce ne accorgiamo
Ma più ancora del tempo che non ha età
Siamo noi che ce ne andiamo
Faber desiderava essere poeta.
Lo è stato, lo è ancora e lo sarà per sempre.