Deve essere un funzionamento previsto nel codice genetico: più i nostri ricordi retrocedono nel tempo, più aumenta la nostalgia, e ci si meraviglia di come si facesse poco caso alla felicità mentre la si viveva.
Tutto, nel ricordo, appare migliore: il freddo più bello, il caldo più gioioso, le giornate più dense, i luoghi pieni di fascino, i vecchi importanti, le canzoni vibranti, i giochi appassionanti, le tradizioni coinvolgenti.
Il mio anno nuovo iniziava la mattina presto con il giro del paese ad augurare il buon anno.
“Bòndibonàn” mi avevano insegnato a dire, e lo pronunciavo con un accento sulla prima “o” che scivolava sulla “a” finale. Nel mio dialetto significava “Buon giorno e buon anno”, ma per me era una specie di abracadabra che aiutava a realizzare desideri, raccogliendo monetine da 5, 10, e, a volte, addirittura 50 e 100 lire.
C'era anche qualche vecchio contrario alla tradizione, ma in fondo contribuiva a rendere particolare quel giorno.
Un gruppetto di noi bambini finiva per radunarsi davanti alla casa del più deciso taccagno, il colonnello ("al culunèl Ziliòl"). A turno ne affrontavamo le ire per raccontarci, sulla strada, il modo in cui ci aveva cacciato: con un urlo, un'imprecazione o una corsa nel corridoio brandendo una scopa.
Tornavo a casa dopo mezzogiorno, le mani annerite dal contatto, per il conteggio, con le monete che gonfiavano le tasche del cappottino, appesantendolo piacevolmente. Non vedevo l’ora di affidarle a mamma che, in quel periodo, avrebbe incontrato la Befana consegnandole il gruzzoletto e precisando i giocattoli da portare nella notte che mi preparavo ad attendere.
E la notte arrivava!
L’agitazione iniziava alle otto di sera del cinque.
Una volta vidi addirittura la mano della Befana scendere dal camino: indossava un guanto bianco e mi lanciò mandarini, bagigi e cioccolatini.
La notte non dormivo, intento com’ero a non lasciarmi sfuggire i passi sul tetto ed il tonfo dei pacchi sulla tavola della cucina. A quel punto svegliavo mamma con un sospirato:
“E’ arrivata!”.
E non c’era nulla da fare: mamma doveva scendere con me nella piccola stanza che la stufa a legna aveva finito di riscaldare, ed insieme aprivamo i pacchi. Risento il crepitio della carta e provo ancora il brivido di piacere che mi procurava. Dentro c’era ogni mio desiderio ed anche di più. Tornavo sotto le coperte e mi addormentavo pregustando la gioia del risveglio con quelle meraviglie.
Quando il mio amico Caiìn mi disse che la Befana non esisteva, che la Befana era mia mamma, non solo non volli crederci, ma risi di lui e combattei a fondo per fargli capire che si sbagliava, che io l’avevo sentita camminare sul tetto, che una sera le avevo visto la mano con il guanto bianco. Non solo ero convinto che le mie prove fossero inconfutabili, ma desideravo, per il suo bene, per la sua felicità, fargli capire in quale grossolano errore fosse caduto. Credo di essere riuscito a insinuargli qualche dubbio perché ci lasciammo che non rideva più tanto, la sua sicurezza canzonatoria si era affievolita.
Lo raccontai a mamma che ogni anno la incontrava, chiedendole come fosse possibile che certi non sapessero della sua esistenza e credessero che la Befana fosse la loro mamma; poveretti!
Mamma sorrise: in fondo non avevo ancora dieci anni ed i bambini di allora erano più ingenui di quelli di adesso.
L’anno successivo vidi un tamburo nella vetrina della nonna. Quando le chiesi come mai tenesse quel giocattolo, mi venne il dubbio che Caiìn avesse ragione. Mamma era all’ospedale dove il suo nuovo bambino, Tiziano, da incantare con la favola della Befana, non ce l’aveva fatta ad incominciare la vita. Nonna si accorse del mio dubbio e, dopo qualche parola scambiata con zio Bino, mi consegnò il tamburo insieme ad un clarinetto di cartone rosso, senza aspettare la mia notte magica, senza spiegarmi nulla, perché tutti si accorsero che avevo capito.
Mi ricordai allora del regalo dell’anno precedente, un magnifico clown equilibrista. Si collegava un filo ad un gancio nel muro, lo si tendeva tenendo con la mano l'altra estremità, vi si appoggiava la ruotina del monociclo dotata di una scanalatura, ed alzando ed abbassando il filo, l’equilibrista correva pedalando vorticosamente, la faccia sorridente, il naso e le gote rosse come i pantaloni, il cappello a cilindro nero, la giacca a quadroni verde, gli occhi contornati di bianco. L'equilibrio era mantenuto da due bastoncini inclinati verso il basso, di ugual lunghezza con un peso identico alle estremità: un’idea geniale. Dopo averlo provato, misi tutto nella scatola per correre a mostrare quella meraviglia a zio Bino: sapevo che a lui queste invenzioni piacevano.
“Per questo me l’aveva comprato” pensai, senza dirlo, mentre rigiravo il clarinetto rosso tra le mani in cerca di qualche nota che lenisse la mia nuova e non cercata consapevolezza.
Ricordai anche l’amarezza di aver perso uno dei bastoncini indispensabili per l’equilibrio. Invano lo cercai, e malamente insieme a papà lo ricostruii, per la difficoltà di realizzare un peso esattamente uguale all’altro che centrasse il baricentro dell’equilibrista sul filo. Il clown correva ancora, ma per tratti più brevi, con sicurezza inferiore, dondolando, e poi cadeva anche se continuava a sorridere.
Finiva così, con un tamburo ed un clarinetto, la mia età magica.
Gli anni però me la racchiusero in un ricordo perenne, unendo i numerosi giocattoli di cui ero orgoglioso agli artefici della favola costruita per me: mamma che mi parlava così bene della Befana da rendermela reale; papà che faceva i trucchi nel camino perché potessi vedere la mano con il guanto bianco, e di notte posizionava sul tavolo i pacchi e gettava qualche sasso sul tetto perché la sentissi camminare; zio Bino che comprava i giocattoli più belli; nonna che li teneva nascosti fino alla notte più bella.
Probabilmente non riuscii a fare quello che loro fecero per me, ma ci tentai, sia con Marco che con Nicolò.
Non c’era il camino nel nostro appartamento ed ormai Babbo Natale aveva preso il sopravvento sulla Befana.
Li avevo convinti che se avessero lasciato una fune penzolare dalla finestra della cucina, la Befana vi avrebbe legato i regali. Giovanna collaborava per creare l’eccitazione dell’attesa, insieme a mamma, memore e nostalgica, ma felice per la magia che ritornava. Giunta la sera, dalla finestra del bagno battevo con una scopa sul vetro della finestra della cucina dove Marco (e Nicolò 7 anni dopo) aspettava l’arrivo promesso. Poco prima avevo legato le sportine di plastica con i regali al filo della prolunga elettrica che costituiva la fune. Allora Marco e Nicolò tiravano e gioivano sentendo il peso dei pacchi che offriva resistenza e la loro gioia era la mia.
Io rivivevo la mia notte antica sperando di comunicarne loro l’atmosfera.
L’atmosfera dell’infanzia, ricca di scoperte giornaliere, piena di attese, di fantasie, di desideri che si avveravano.
E di speranze vive, che volano e non galleggiano ancora tra illusioni, delusioni ed indesiderate certezze.
Libro
il racconto è inserito anche in questo libro cartaceo